Per molti anni ho lavorato come educatrice con gli adulti in situazioni di fragilità e marginalità socio-economica. Sono stata a contatto con felicità, dolore, successi e fallimenti delle persone che ho accompagnato e che, in una certa misura, sono stati anche i miei.
Ho costruito la mia strada professionale nel tempo, formandomi per approfondire tematiche per me importanti, come ad esempio gli Interventi Assistiti con gli Animali e l’educazione a contatto con la natura.
Oggi continuo a fare l’educatrice, ma in ambiti differenti, tra cui anche la disabilità.
Seguo un bambino nello spettro autistico non verbale di dieci anni come educatrice domiciliare ed un ragazzo nello spettro autistico di 24 anni che vive in autonomia, supportando il suo percorso di emancipazione.
Quello che amo e che mi affatica del mio lavoro, è che ogni volta che entri nella vita di una persona e di tutto il suo sistema, vieni catapultato in un viaggio sempre nuovo, unico, irripetibile, che ti cambia, ti forma e ti fa crescere insieme alla persona che ti accoglie nella propria vita.

Essere educatrice è un gioco di equilibri costante tra quello che sai, che hai studiato, che hai imparato sul campo e la consapevolezza che ogni persona ti porterà su una strada nuova, mai battuta, che richiederà impegno per spogliarti di tutto quello che credi di sapere, per rispettare l’unicità di chi hai davanti in quel momento. Ci sarà necessità di nuova formazione per essere pronta a sostenere il percorso di quella persona, secondo i suoi bisogni perché sarai tu a dover adattarti al suo sistema di comunicazione, valori e credenze; non può e non deve essere il contrario.
Non avevo mai lavorato al domicilio in questo modo, per esempio.
Ci vuole una delicatezza estrema per entrare in un nucleo familiare da così vicino e ti rendi conto, più che mai, che diventi l’educatrice di un intero sistema. Questo mi porta costantemente a lavorare sempre più sul grado di vicinanza e distanza da mantenere, per poter essere una professionista di supporto. Il grande rischio nelle relazioni di cura è quello di rimanere invischiato, di essere trascinato nelle storie delle persone che incontri. Al domicilio la linea tra vicinanza e distanza si assottiglia moltissimo, l’attenzione e l’equilibrio da mantenere quindi sono fondamentali.
Grazie a questi nuovi incarichi, mi sono anche misurata con i miei limiti comunicativi; io, persona che usa 100 parole per dire un semplice “buongiorno”, mi sono trovata davanti due persone che, a loro modo e per ragioni differenti, mi chiedono di usare meno parole possibili per poter essere compresa e se necessario anche il silenzio.
Come mi stanno insegnando l’importanza delle pause, della calma, dello “stare” senza il “fare”, percorso che ho da tempo intrapreso nella vita privata, con un certo grado di fatica, e che nel lavoro mi richiede ancora più impegno.

Essere entrata poi nel mondo della CAA è stato per me rivelatore.
Mi sono resa conto di quante volte, anche in passato e con altri tipi di utenza, avrei potuto utilizzarla per migliorare la comunicazione e supportare le persone nel loro percorso di mantenimento delle autonomie. È per questo che sono una grande sostenitrice della formazione continua; ogni professionista deve avere la consapevolezza di non essere onnisciente e onnipotente.
Inoltre comprendo e sostengo la necessità di essere prima di tutto noi i promotori del cambiamento che vogliamo vedere nel mondo ed è per questo che cerco di cogliere ogni momento che mi viene offerto per aprire spazi di dialogo.
di Manuela Tranchese - IG: Educatrice in fattoria
留言