Di Pompeo Matta
Si parla spesso di autismo come di un disturbo.
Spesso viene presentato ai genitori, anche in ambito clinico, come una sentenza. Sovente le reazioni sono di pianto, di rabbia, quasi di disperazione, di sconforto, non essendo genitore non immagino quali sentimenti si possano provare.
Oggi è risaputo che l’autismo non è una patologia, se fosse una patologia non ci sarebbe nulla di terribile, patologie e disabilità sono caratteristiche dell’essere umano, condizione che chiunque potrebbe vivere, dopo un incidente, a causa di un virus o una patologia come cancro e diabete, nella vecchiaia, a causa di un burn out.
Dal mio punto di vista, genitori e insegnanti, dopo la diagnosi dovrebbero dimenticarsi dei termini clinici, spesso anche non aggiornati, e tenere una visione del bambino e della bambina a 360 gradi, dal punto di vista sociale, emotivo ecc.
Si dovrebbe dividere il linguaggio medico da quello sociale, filosofico, antropologico, pedagogico ( che spesso si aggancia a quello clinico, non essendo di sua competenza), sociologico, emotivo ecc. sembrano paralleli a quello clinico, invece dovrebbero arricchirsi e collaborare, incontrarsi, confrontarsi.
Spesso il linguaggio clinico monopolizza la visione del bambino o della bambina, della ragazza o del ragazzo e degli adulti presi in carica.
L’autismo è un neurotipo, una base neurobiologica dove si possono presentare co occorrenze (è sbagliato parlare di comorbilità o comorbidità) funzionali, disfunzionali e\o patologiche, così come succede per le persone neurotipiche.
Sino a qualche decennio fa si aveva la convinzione che i veri autistici fossero maschi, non verbali o scarsamente verbali e con una serie di caratteristiche disfunzionali.
Nei miei primi tre anni di età non ho fatto dormire i miei genitori, vabbè un bambino irrequieto, poi ho cominciato a dondolarmi e a sfarfallare roteando per ore oggetti come penne, pennarelli, mollette divise in due, ramoscelli ecc. , vabbè un po' strano , ma normale, all’asilo piangevo continuamente, infatti i miei genitori mi hanno tolto, vabbè non lega con la suora, alle medie non riuscivo a farmi apprezzare, vabbè è un po' timido, da adolescente passavo da un comportamento problema ad un altro, eh vabbè, l’adolescenza è così, mi sono laureato in 8 anni, vabbè non ha voglia di studiare. Intanto mi sentivo spesso fuori luogo, fuori contesto, rifiutato, le mie relazioni amorose e amicali erano sempre complicate e mi sentivo sbagliato.
Ho cominciato a lavorare come educatore in centri estivi, poi due anni in una comunità per minori, e notavo che genitori, alunne e alunni, ragazzi e ragazze, mi stimavano, spesso mi ringraziavano.
Poi ho cominciato a lavorare come educatore nelle scuole e a domicilio con bambini, ragazzi e adulti in prevalenza autistici e ADHD. I miei percorsi con queste persone portavano quasi sempre a dei buoni risultati, alcune volte insperati, il rapporto umano era bilanciato con quello professionale e sempre positivo e di reciproco rispetto.
Ma la cosa che mi sconvolgeva era il modo in cui io capivo loro e loro me, spesso riuscivo a prevedere una crisi, alcune volte la prevenivo, altre semplicemente la osservavo.
Una cosa sconvolgente era quando stavo male fisicamente o emotivamente, loro osservavano me, non mettevano in atto, o quasi mai, i comportamenti che venivano chiamati problema.
Ma io capivo queste persone, perché spesso le cause che scatenavano crisi o ribellioni erano identiche a ciò che succedeva a me. Quante volte ho discusso con colleghe o equipe della NPI perché non ero d’accordo sui termini, su come venivano giudicati disfunzionali certi comportamenti, che per me erano solo una reazione a degli stimoli provocati da persone e contesti.
Uscivo sfinito dalle riunioni e dai confronti con le professioniste e i professionisti.
Non ho detto che appena mi sono laureato ho cominciato ad andare dallo psicologo, poi è diventata una sana abitudine, personalmente mi sono trovato meglio con psicoterapeute donne e con la psicoterapia strategica breve. A tutte le figure a cui chiedevo consulenze psicologiche esprimevo il mio dubbio di essere una persona autistica, o perlomeno Asperger sino al 2012 e iperattivo, mi dicevano che potevano essere tratti o vezzi, di non preoccuparmi.
Il fatto è che non ero per nulla preoccupato.
Leggevo già Temple Grandin e Donna William e mi ritrovavo in molte loro caratteristiche.
Qualche anno fa scoprii su youtube il profilo di Neuropeculiar e Bradipi in Antartide e decisi di intraprendere il percorso privato per togliermi ogni dubbio su quella che è sempre stata la mia convinzione. Neuropeculiar è un’associazione fondata e diretta da persone autistiche che si occupa di promuovere lo sviluppo di una nuova comprensione sociale e culturale, attraverso il paradigma della Neurodiversità, delle naturali espressioni dello sviluppo neurologico (Spettro Autistico, APC alto potenziale cognitivo, DSA, ADHD e ogni forma di Neurodivergenza), ma anche di diritti delle persone con disabilità, della comunità LGBTQIA+, di ricerca partecipata e tanto altro.
Cominciai a leggere i libri di Fabrizio Acanfora, che ora è presidente dell’associazione e della dottoressa Luisa di Biagio (psicoterapeuta e addestratrice cinofila autistica che non è collegata a Neuropeculiar, lei ha un’associazione chiamata Cascina Blu che si occupa di supporto alle famiglie e alle persone autistiche), e a seguire profili di persone autistiche e ADHD come Red, Emanuela Masia, ADHD adulti ecc.
Bene, ora so per certo di essere autistico, ADHD (anche se a me piace chiamare la condizione APHO Attention Peculiarity Hyperactivity Operation), APC e aprassico, tutte le persone citate prima (tra cui Alice Sodi, Roberto Mastropasqua e Tiziana Naimo che hanno fondato l’associazione) le ho conosciute personalmente e spesso mi ci confronto e prendo un sacco di spunti e di nozioni, spesso metto in discussione le mie conoscenze, le mie convinzioni grazie a loro.
Nel frattempo, sono entrato di ruolo come insegnante dell’infanzia, ho fatto anche anni su sostegno; quindi, sono una persona AUDHD che da supporto, crea rete sociale e ha interazioni umane significative, addio stereotipi!
Anche se di stereotipi, che poi spesso effettivamente sono caratteristiche riscontrabili in una persona autistica e ADHD, ne presento diversi, se venissero visti semplicemente come tratti umani e la società fosse strutturata di più a misura di tutte le persone, sarebbero viste meno come disturbi o comportamenti bizzarri.
Come insegnante mi metto spesso in discussione, non posso prescindere da questo, cerco di fare autocritica, ma impegnandomi a limare certi schemi di pensiero legati ad un’emotività ansiosa, spesso causata da una società a misura di neurotipico e spesso legati al funzionamento in sé.
Seguendo l’elenco (mi piacciono troppo gli elenchi) di questi schemi di pensieri individuati dallo psichiatra Aaron Beck cerco di superare:
Il pensare in bianco e nero, cioè che le cose vanno sempre in un certo modo.
Ipergeneralizzare, quindi se una cosa va male tutto va male.
Pensiero magico, cioè, pensare che non sarai all’altezza basandosi su un pensiero scollegato.
Filtro mentale, cioè, concentrarsi su pochi dettagli quando il quadro generale magari è differente.
Sminuire il positivo, invece di sottolinearlo
Saltare alle conclusioni, per esempio se non ti trovi bene in un posto di lavoro, non starai bene in nessun posto di lavoro.
Ingigantire gli aspetti negativi e minimizzare quelli positivi.
Ragionamento emotivo, consiste nel provare un sentimento rispetto ad un evento e dare per scontato sia così.
Doverizzazione, cioè, essere sempre duri con sé stessi, avrei dovuto fare così, avrei dovuto pensarci prima, senza darsi l’opportunità di sbagliare. E noi insegnanti sappiamo come per Maria Montessori sia fondamentale l’errore per poter crescere.
Etichettamento, definirci sempre in modo negativo
Personalizzazione, cioè, pensare di avere colpa anche su eventi su cui non potevamo avere nessun controllo.
Inoltre altre situazioni che possono innescare lo stress in noi persone autistiche, e ne ho avuto riscontro nel mio lavoro sono: sensibilità sensoriali, emozioni negative altrui, essere criticato, fare un errore, alterazione di routine, non capire cosa le altre persone si aspettano da me, troppe richieste e aspettative, vedere trasgredite regole o convenzioni sociali, quando mi impongono un cambiamento a cui non sono pronto, dover aspettare troppo o dovermi sbrigare, il giudizio altrui, interpretare alla lettera ciò che mi si dice, le chiacchiere di cortesia e tanto altro. Questi elenchi si trovano spiegati egregiamente nel libro “Autismo al lavoro” di Tony Attwood e Michelle Garnett. Dopo il lavoro o gli incontri sociali spesso sono sfinito, scaricato e mi rifugio nei miei interessi assorbenti.
Quando sono a scuola, sono in iperfocus, però è un lavoro che mi piace tanto, quello che faccio è un percorso con il bambino, un imparare reciprocamente, ovvio nei confronti di bambine e bambini sono una guida, un porto sicuro, una figura che deve creare fiducia e autostima, ma all’interno della sezione, della classe, o durante un’educativa si impara costantemente, con la reciproca osservazione e conoscenza, spiegando, sin dove è possibile, il tuo lavoro, facendolo percepire come un percorso che darà ad entrambi una prospettiva futura positiva, personalmente imparo tanto anche dalle colleghe, dai colleghi dalle figure cliniche e dai genitori che danno la loro visione emotiva .
Per me il P.E.I. è un’occasione che mi emoziona, perché metto su carta il percorso che intendo percorrere con il bambino, ed il confronto con colleghe e colleghi, quando è sentito, mi regala punti di vista differenti che completano il progetto.
Carpisco tantissimi dettagli ed intuizioni, è vero, spesso sono sfinito, però quando mi reco a lavoro è come se ogni giorno scoprissi una parte di me sino al giorno prima sconosciuta, le differenze si assottigliano, nel mondo aula ogni persona si esprime secondo le proprie caratteristiche, e noi persone adulte dobbiamo stare chirurgicamente attente a far esprimere al meglio i bambini e le bambine e spesso per come è organizzata la scuola non succede, spesso chi ha una disabilità o è neurodivergente deve adattarsi, altrimenti si dice che non si può adattare la classe a lui o lei. Come sostiene Fabrizio Acanfora è importante coltivare la convivenza delle diversità, spesso ci sono situazioni in cui è stato possibile, altre meno.
Però quando non si verifica, il bambino sa, percepisce, che il suo insegnante atipico è uno scudo dall’organizzazione tipica che non permette di esprimersi appieno, e quando la barriera sono io, perché alcune volte mi capita di seguire alla lettera regole imposte dalla scuola, anche per cause esterne, mi esprime il suo disagio e io cresco, imparo ad essere un insegnante migliore.
Quando ero educatore professionale mi veniva detto che ero molto bravo, ma, avendo una preparazione pedagogica abbastanza nella norma, non ottenevo risultati solo grazie alle tecniche, ai concetti interiorizzati, ma ciò che mi riesce naturale e che è un vantaggio per me, è che spesso capisco la natura di certe crisi, di certe esplosioni e mi trovano li accanto a loro, senza giudizio, senza sguardo pietistico, ma con la comprensione di chi sa ciò che spesso provano. Sarebbe così bello se noi persone autistiche, ADHD, in generale neurodivergenti, disabili, insegnanti , figure cliniche, genitori, formassimo una rete sociale forte, resistente , tenace collaborativa che ci permettesse di cambiare le politiche sociali a favore di una convivenza tra le diversità come ha scritto Fabrizio Acanfora.
Di Pompeo Matta
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